Stai leggendo: "Ralph - Supermaxicane" di Quinto Moro
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1. Un cane di città e sette bastardi
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Erano in sette, e tutti incazzati. Ralph aveva già affrontato un branco di cani, ma mai più di cinque. Lui non era mai stato un cane rissoso, né tipo da ringhiare per primo. Di solito starsene buoni era il modo migliore per evitare le zuffe. Di solito. Mica sempre. Una volta Ralph ne aveva affrontati cinque, ma non l’avevano attaccato tutti insieme, soltanto due s’erano fatti sotto accompagnando il capobranco, Bertuccio, che di tutti era il più massiccio e pericoloso. Un quarto, che si chiamava Black ma di black aveva la sola pezzatura sul dorso – come una sella – se n’era rimasto ad abbaiare e aizzare il gruppo, azzardando di tanto in tanto un’entrata aggressiva in zona chiappe. Il quinto della banda, l’unica femmina di nome Diana, era rimasta ad ululare in lontananza. Ralph avrebbe imparato a conoscere quell’ululato, tetro e prolungato, lamentoso, di chi spera di attirare l’attenzione dei padroni e metter pace tra gli scalmanati.
A Ralph mancava il suo vecchio branco, o almeno gli mancava Diana. Ralph le voleva bene, anche se non tanto da farci fantasie di cuccioli. Diana era una cagnolona pulciosa dal pelo ispido e brutto, disordinato, un poco somigliante al fratellastro Bertuccio negli aspetti peggiori: il pelo arruffato nero e marrone, l’andatura claudicante, le orecchie storte. Diana era docile, riservata e silenziosa mentre Bertuccio la bestia più spaventosa e possente che Ralph avesse mai incontrato. Era un incrocio tra un pudelpointer e una delle tre teste di Cerbero, quella di cazzo. Ralph e Bertuccio non s’erano mai potuti soffrire ma da Bertuccio aveva imparato a farsi rispettare, a capire quando ritirarsi con la coda tra le gambe e quando battersi.
Il vecchio branco era un ricordo ancora fresco e Ralph pensava a loro ogni giorno: a quei due stronzi di Bertuccio e Black, alla dolce Diana, a Zuzzo e Zizzo – due tipi a posto, anche se non avevano mai legato molto. Gli mancava quando d’inverno s’accozzavano per scaldarsi, quando uno partiva per la tangente e si metteva ad inseguire una macchina, e tutti dietro aggiungendo latrati ai latrati, sfidandosi a chi riusciva a tener dietro al motore più a lungo sfidando i gas di scarico. Ma se li era lasciati alle spalle, e da sopravvissuto alle angherie di Bertuccio per anni, poche cose potevano impressionarlo, nemmeno sette cagnacci pulciosi e sbavanti in un campo di sterpi spinosi.
Al centro del marasma, stordito dal rotolare su se stesso per non dare le spalle troppo a lungo a questo o all’altro, Ralph studiava gli aggressori. Certo erano sette, e molto incazzati, ma anche dei poveri disgraziati. Per quanto mostrassero i denti sbavando a tutto spiano, non ce n’era uno degno della mole né dell’aura sinistra di Bertuccio. Dei furiosi magnifici sette, tre erano mezzi ciechi, uno zoppo all’anteriore destra, uno alla posteriore sinistra. C’era persino uno yorkshire. Uno yorkshire! Ralph ne aveva visto nelle passeggiate al parco, aveva riso di loro alle pubblicità dei croccantini alla tv e non c’era specie che compatisse di più, per quel brutto miscuglio di brutta stazza e brutto pelo.
Ralph era un incrocio tra un cane corso e un bracco italiano. Del primo aveva la profondità dell’abbaio, del secondo l’espressione immusonita. L’andatura sbilenca e le spalle tozze lo rendevano estraneo ai più nobili aspetti di entrambe le razze. Ralph sembrava tutto fuorché quel cane di nobili origini che il padrone non s’era mai stancato di vantare, discendente da nonni e bisnonni d’alto pedigree e solo ora circondato dai randagi furiosi, Ralph realizzò d’essere diventato randagio pure lui.
Nella cagnara di latrati e minacce la situazione cominciava a farsi noiosa. Tutti abbaiavano, ma nessuno azzardava un attacco serio.
Branco di cacasotto, pensò Ralph. Bertuccio se ne sarebbe fatti venti di questi.
Ralph ammutolì fissando dritto negli occhi quello che sembrava il capo, un bastardo bianchiccio dal muso masticato e le orecchie divorate dalle mosche. Ralph trattenne il ringhio in gola, facendolo salire. Aveva imparato a farlo al parco, imitando i cani più grandi quand’era ancora un cucciolo e negli anni aveva affinato la tecnica. L’abbaio di Ralph era diventato via via più profondo, gorgogliante. Certo poca cosa in confronto a Bertuccio, il cui latrato era possente tanto quanto ci si aspettava da un cane di quella stazza. Il mondo era pieno di cani il cui abbaio imbrogliava sulla stazza e il senso di minaccia, ma Bertuccio era una perfetta miscela di sguardo assassino – occhi gialli degni delle fiamme dell’inferno – ringhio e stazza da far cacare sotto tutti quanti, dai compagni di branco ai padroni. Dopo Bertuccio, nessun cane sembrava poi tanto pericoloso.
L’ansia iniziale nell’incontro coi sette stava scemando e Ralph cominciava ad annoiarsi del tira e molla di minacce di morso e ritirate. Due randagi s’azzardarono a sbattergli il muso sul fianco e sulla chiappa destra ma Ralph non si mosse. Non aveva intenzione di farsi sbranare, non da bastardelli del genere. Potevano fargli male, ferirlo di brutto, questo sì. Ma Ralph era già stato ferito, anche gravemente, e se l’era sempre cavata. Certo non aveva più il padrone – e le di lui moglie e figlie – a prendersi cura di eventuali ferite. Ralph era un cane intelligente, sapeva che ferirsi nella brulla campagna poteva costargli la vita. Ma sapeva anche che quello era il momento più importante della sua nuova vita da randagio. Come gli aveva detto un saggio bulldog al parco, quand’era ancora un cucciolo: non è importante se sei un rottweiler o un carlino, l’importante è quanto riesci a farti rispettare.
Ralph trattenne il respiro, rilasciando pian piano l’aria attraverso il gozzo. Le zampe fisse sul terreno. Gli artigli in fuori come un gatto. I peli dritti dall’incavo della nuca sino all’attaccatura della coda. Il ringhio sommesso, crescente. I latrati intorno a lui si attenuarono. Lentamente i randagi presero a indietreggiare, tutti tranne uno. Il capobranco era proprio il bianchiccio dal muso masticato. Mostrava i denti, il bastardo, compiaciuto dell’orrida stortura e sporcizia di cui erano fatti. Ralph tenne la bocca chiusa e ripensò a Bertuccio: lui non mostrava mai i denti se non era intenzionato ad usarli. Mai cercare di spaventare l’avversario se sei più spaventato di lui.
“Allorachiccazzoseicheccazzovuoi?” ringhiò d’un fiato il capobranco lercio “tornadovecazzovenutosubito”
“Respira” ringhiò Ralph, con un tuono gutturale che lo fece sentire orgoglioso di sé. “Non capisco un cazzo, perciò parliamo con calma”
“Cane di città del cazzo” ringhiò il capobranco “tornatene a casa”
“Non ce l’ho più una casa” gorgogliò Ralph.
I bastardi latrarono all’unisono, oltraggiati.
“Ha ancora addosso la medaglietta!” latrò quello che sembrava una palla di pelo cacata da un cane da ferma tedesco.
“Vuoi venire a strapparmela tu?” ruggì Ralph. Nel silenzio che seguì cercò di tenere alto lo sguardo, ma si sentì in difetto: era l’unico tra i presenti ad indossare il collare.
Quello che in tempi felici sarebbe stato un golden retriver s’azzardò a spingersi fuori dal cerchio, ad annusare l’aria intorno a Ralph.
“Sei uno scappato di casa?” fece il simil golden.
“Non sono cazzi tuoi”
“Lo sono se vieni nel nostro territorio” fece il bianchiccio, ricacciando indietro il golden. “Io sono Charlie, tu chi cazzo sei?”
“Ralph”
“Ma è un nome da cagnetta” latrò lo yorkshire.
“Lo sai che con te ci fanno le scatolette per cani?” abbaiò Ralph.
“Accuccia Rudy” disse Charlie allo yorkshire.
“Rudy?” fece Ralph incredulo “e dici fighetta a me?”
“Non ho detto fighetta” borbottò lo yorkshire, indietreggiando “ho detto cagnetta”
“Se vuoi insultare qualcuno fallo come si deve, se hai le palle” ringhiò Ralph “o ti hanno castrato?”
Ralph provò subito vergogna per aver toccato l’argomento. Sperò che nessuno dei sette bastardelli avesse subito il grande oltraggio. Ralph era stato fortunato, ma aveva conosciuto dei poveri disgraziati con cui mai avrebbe voluto condividere il dolore e il disagio della castrazione. Doveva però restare forte e aggressivo. Il branco era teso e sul chi vive, ma gli avevano restituito un po’ di spazio e di respiro. Stavano parlando, ed era già qualcosa.
“Qui nessuno è castrato” disse Charlie “ma non c’è da riderci sopra”
“Già” disse quello che sembrava uno scarto di pastore tedesco “magari è scappato dal padrone perché stava per toccare a lui”
“Zitto Max” disse Charlie senza staccare gli occhi da Ralph “stammi a sentire Ralph: noi siamo in sette e tu da solo. Questo è il nostro territorio ed è già troppo per sette bastardi, non ne vogliamo un ottavo. Se sei scappato di casa cazzi tuoi. Non ti ammazziamo ed è già tanto, ma levati dalle palle fintanto che le hai ancora penzolanti”
Ralph fissò Charlie. Gli sfuggì un lamento gutturale, sinistro e minaccioso. Ralph pensò a Bertuccio, cos’avrebbe fatto lui? Ne avrebbe ammazzato due o tre prima che potessero accorgersi di cosa li aveva colpiti. Ralph non era il tipo, né così forte. La sola stazza non sarebbe bastata per imporsi, ma a differenza dei sette Ralph era un cane ben nutrito e in forze. Le sue ferite, nascoste qua e là sottopelo, erano state curate senza lasciare troppi dolori. Sette bastardi erano troppi per la sua scarsa attitudine al combattimento, ma loro non potevano saperlo. Ralph vedeva sette cani bastonati, pericolosi solo per la fame e la disperazione della vita randagia. Loro vedevano un cane dal pelo lucido, ben pasciuto e che stava a fronteggiarli tutti e sette. Dai loro sguardi, la sporcizia sul pelo, il ventre scavato e le orecchie maciullate, Ralph capì di non aver molto da temere. Forse dal meticcio chiamato Max, i cui tratti del pastore tedesco era meglio non sottovalutare. Charlie sembrava un buon cane, risoluto ma anziano, e la sua aggressività sapeva tanto di bluff. Se Ralph era sopravvissuto a Bertuccio, si sentiva di scommettere sulla propria vittoria in uno scontro diretto quei due. Charlie aveva paura quanto lui. L’avevano tutti. S’erano visti invadere il territorio da un cane che portava ancora segni del padrone nel collare, nei muscoli tonici e la pancia piena. Ralph poteva rilanciare il bluff.
“Dici che in sette siete tanti. Se ammazzo uno di voi, saremmo di nuovo in sette. E se ne ammazzo di più, saremmo un branco più piccolo con più da mangiare per tutti”
Charlie gli si fece incontro, quasi muso a muso, soffiandogli in faccia. “Pensi che ammazzando uno di noi, ti guadagni subito il posto nel branco? Ne abbiamo già visti branchi dove funziona così. Ammazza uno o due di noi, e credi di poter dormire tranquillo la notte? Che anche il più piccolo di noi non possa squarciarti la gola mentre sogni la ciotola del tuo padrone?”
Lo sguardo di Ralph cadde sullo yorkshire chiamato Rudy, rigido al punto da sembrare finto, come uno di quegli oltraggiosi animaletti robot della figlia piccola del padrone, cui Ralph dava più di una colpa nell’esser stato strappato agli agi dell’appartamento per finire all’azienda di campagna – da cui era poi fuggito. La smorfia di Rudy rasentava l’idrofobia, aveva un che di comico. Ralph decise che sì, Rudy era piccolo e patetico ma forse abbastanza ignobile e pazzo da squarciare la gola a un cane più grande in piena notte.
Tutti tacevano. Charlie non aveva visto il suo bluff. Era un cagnaccio lercio, ma già gli piaceva. Inutile minacciare chi non aveva niente da perdere. Così vicini, per Ralph sarebbe stato facile azzannargli il collo e strappar via tutto, dalla mascella al cuore. Ma Ralph non era feroce. Non aveva mai ucciso un altro cane, né un altro quadrupede. Quaglie e cornacchie non contavano.
“Dove c’è da mangiare per sette c’è da mangiare per otto” disse Ralph con calma.
“Ma dobbiamo stare a sentire queste stronzate?” latrò Max, quell’avanzo di pastore tedesco.
“Guarda com’è grasso, mangerà quanto tre di noi” seguì a ruota Rudy, lo yorkshire.
“C’è da mangiare più che per otto nelle fattorie e nei campi qua intorno, ed io li conosco tutti” replicò Ralph.
“Noi non rubiamo dalle fattorie” disse Charlie “è troppo pericoloso”
“Mettono le tagliole, e i bocconcini avvelenati” fece un bastardino simile a un labrador.
“Io so quali mettono le tagliole e quali no” rispose Ralph. Non stava bluffando di proposito. Conosceva i confini sicuri oltre i campi del suo padrone, ed era stato in quelli vicini ma poco altro. Ricordava qualche buco nelle recinzioni e zone di terra molle facili da scavare. Di tagliole però, Ralph aveva solo sentito parlare. Il suo padrone non le usava e poteva dire d’averne vista una appesa in un capanno. Quanto a scovarle tra l’erba alta e tenerci le zampe alla larga non aveva nessuna esperienza, solo raccomandazioni e voci della cara vecchia Diana secondo cui, se nel bel mezzo del nulla senti puzza d’uomo nell’erba alta, forse l’uomo ha lasciato là qualcosa che potrebbe essere una tagliola o un laccio per lepri. Nella sua fuga, Ralph s’era attenuto a quella e ad altre regole generali, come stare lontani dai sentieri sterrati, dai campi dove i ciuffi d’erba sono troppo uniformi, ordinati e dritti. Aveva attraversato campi sterminati e capannoni abbandonati, sapeva distinguere dove l’uomo era stato e non stava più dai luoghi ancora abitati. L’odore del ferro dall’odore della ruggine, quello dei pollai e delle stalle abbandonati da quelli pieni. Certo niente di impressionante per qualsiasi cane, ma ne faceva gran vanto con se stesso da ex cane di città. Fatto stava che per fortuna o per istinto s’era tenuto lontano da tutte le trappole dell’uomo, sentendosi arrivato solo adesso, in aperta campagna, davanti a un branco di disperati.
“Sei un cane da caccia?” grugnì Max, con una punta di speranza.
“No” rispose Ralph sincero. Qualche volta c’era stato ma senza allontanarsi troppo dal padrone. Avrebbe potuto bluffare ancora, mentire e fare suoi i cento racconti ascoltati nel suo vecchio branco – Zuzzo e Zizzo ne avevano sempre in abbondanza, come la stessa Diana che della dea della caccia portava persino il nome.
“Ti pareva” fece Max digrignando i denti in segno di disprezzo.
“Voi andate a caccia?”
“Certo, di cosa credi che viviamo?”
“E siete stati addestrati tutti come cani da caccia?” chiese Ralph.
Silenzio.
“Mi avete chiamato cane di città” fece Ralph “ma se per voi un cane da caccia è solo quello addestrato, siete voi a ragionare da schiavi degli uomini”
Ci fu un diffuso ringhiare di disapprovazione, ma pure di vergogna. Charlie fissava Ralph, e l’attenzione del capo era tutto ciò di cui aveva bisogno.
“Cani di città” protestò ancora Max “certo sono bravi a parlare, quasi quanto farsi riempire la ciotola dagli altri”
“Non sono venuto qui a rubarvi da mangiare. Se non mi venivate addosso, circondandomi come un coniglio troppo grosso che non avete il coraggio di azzannare, me ne sarei andato per la mia strada per altri mille passi. Mi siete venuti a fermare, e adesso potete levarvi dal cazzo e farmi andare via, non sto chiedendo di stare qui con voi.”
“Veramente è quello che stavi dicendo un momento fa” disse il cane che somigliava a un labrador, lo stesso che aveva parlato di tagliole. Del branco, doveva essere il più sveglio.
“E’ vero!” ringhiò il piccolo yorkshire, sciogliendosi finalmente dalla sua posa da pupazzo idrofobo “un momento fa diceva cibo per sette, cibo per otto e tutte quelle stronzate”
“Sentite” fece Ralph guardandoli uno ad uno “non ho pulci né zecche addosso, già così vi posso fare meno danno di quanto voi potete farne a me”
Max, il pastore tedesco acciaccato e mezzo nano si rifece avanti, i peli dritti sulla schiena. “Questo parla troppo Charlie. Fammelo assaggiare. Scommetto che è tenero”
“Piantala Max” disse Bolly, col tono di chi è troppo abituato alle ciance di qualcuno “sarà pure un cane di città ma non ne ha più l’odore”
Un cane di media taglia, bianco e caffellatte, si fece avanti annuendo energicamente in sostegno a Bolly.
“Max ha ragione” fece Charlie, e gli altri lo guardarono come se quella fosse una gran novità per il branco. Lo stesso pastore tedesco drizzo la testa come se un’ape gli fosse appena saltata al naso. “Questo tizio parla troppo, ma è pur vero che odora come un cane che viene da lontano, che ha visto e attraversato tanta campagna, perciò se la smette di dire stronzate direi che può restare. Non sarebbe male battere qualche nuova pista e mettere qualche gallina nello stomaco.” Poi Charlie accostò il muso all’orecchio di Ralph, ringhiando piano “se te ne vuoi andare vattene, ma se vuoi restare non parlare più di pulci e zecche, o torna valido quello che ti dicevo prima, su quanto puoi dormire tranquillo. Tutto chiaro, cane di città?”
Ralph rispose al ringhio ma con poca convinzione. Il branco lanciò a Ralph occhiate miste, tra il curioso e l’ostile, poi si disperse tra i campi.
Mi sono fatto dei nuovi amici, pensò Ralph.
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