Stai leggendo: "Lulubelle XX" di Quinto Moro
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Parte 1: Una vacca di lusso
Non capiva cos’avessero di speciale i tanto celebrati prati inglesi. Insomma, Lulubelle non aveva visto altro per tutta la vita che prati inglesi, d’ogni sfumatura possibile di verde, con fiorellini di campo e senza. Certo la loro erba era gradevole sul palato, ma preferiva di gran lunga il miscuglio di prima scelta che i padroni depositavano ogni due giorni nella sua mangiatoia. Il tono di rovina che li aveva smunti con la siccità di quell’estate era quasi benvenuto, se non altro per l’inaspettata variazione cromatica dal sapore mediterraneo, con macchie dorate da spighe d’avena secca e cespugli morti. Il verde, comunque, resisteva.
Il padrone del podere si chiamava Herny Archibald III, e possedeva le Lulubelle da sei generazioni o giù di lì, ovvero circa vent’anni. Cos’era stato delle sue antenate vacche, Lulubelle XX non poteva esserne certa. Sua madre Lulubelle XIX era morta investita da un camion appena fuori dalla periferia di Worchester appena dopo essere stata venduta, mentre sua nonna Lulubelle XVIII era precipitata giù dalla falesia a picco sul mare del Dorset. Lulubelle XX non ricordava molto altro del restante pedigree di famiglia e nelle giornate piovose, quando i suoi cereali nella mangiatoia esterna del fienile si trasformavano in un pappone nauseabondo, dubitava persino d’essere l’ultima delle mucche più celebri del Regno Unito. Non per narcisismo, ma era certa d’essere una delle più belle frisone d’Inghilterra, coi suoi seicento chili e uno spettacolare manto pezzato bianco e nero, le macchie proporzionate e ben distribuite. E non per classismo, ma sapeva anche d’essere una delle più intelligenti. Un dono genetico della dinastia Lulubelle, o dono delle attenzioni di Padron Archibald che non s’era limitato a nutrirla e coccolarla come un animale domestico: le aveva dato un’istruzione.
In barba a chi gli aveva dato del matto, Henry Archibald III aveva sempre parlato con la sua Lulubelle con la stessa franchezza e dignità – in certi casi di più – di quanto avrebbe fatto con ogni altro essere umano. Henry Archibald III aveva passato ore a leggere per Lulubelle, soprattutto i tabloid, l’Indipendent su tutti, o il Sun quando aveva la luna storta. La Signora Archibald apprezzava soprattutto il gossip del Daily Star e in mancanza d’altro Henry leggeva a voce alta pure quello.
Così Lulubelle s’era fatta un’idea del suo posto nel mondo – e che posto, l’Inghilterra –, degli avvenimenti più importanti degli ultimi sei anni e un’infarinatura della storia – recente e non – del glorioso Impero Britannico. Il mondo era un posto grande, “quasi quanto il Commonwealth stesso!” diceva Padron Archibald, che da giovane aveva viaggiato e visto altre isole, altri continenti, dall’Irlanda all’India. Lulubelle XX sognava spesso l’India, dove avrebbe potuto essere una mucca comune, proletaria, vagabonda, eppur divina e venerata come in nessun altro angolo d’Inghilterra. Certo la fattoria di Henry Archibald III conservava il suo fascino nonostante l’andare degli anni, anche se non si poteva davvero chiamarla fattoria, essendo Lulubelle l’ultima mucca rimasta e senza nemmeno più l’ombra di un ovino con cui scambiare due pettegolezzi. Il recinto delle oche era ormai secco e riadattato a roseto, mentre una torma di galline chiassose stava obliata alla vista, in un capannetto dietro la cascina.
La tenuta di Henry Archibald III era sì un bel posto, ma anche il più bel posto del mondo viene a noia se non s’è visto altro da tutta la vita, e che ne sapeva lei di cos’era più bello o più brutto. Lulubelle aveva solo i racconti del padrone e le poche gite fuori porta, molte delle quali rese assai poco gradevoli dal rendersi conto che la sua istruzione l’aveva messa in una scomoda condizione elitaria. A volte si sentiva l’unico animale intelligente d’Inghilterra – quantomeno nell’accezione umana del termine. Lulubelle già soffriva per un corpo tanto goffo e scomodo, la postura quadrupede, le estenuanti ore di rumino e digestione, nonché un apparato vocale che per quanto si sforzasse, restava privo del dono della parola. Che poi le discussioni con altre mucche fossero limitate a mungitura, storie di monta di puerperio, o racconti dell’orrore sui mattatoi, era una sciagura. E una gran noia. Non si dovevano però incolpare i bovini quanto i padroni che non li tenevano abbastanza in considerazione. L’inglese medio era deludente rispetto al grandioso esempio che per Lulubelle era stato Henry Archibald III. Ma cosa aspettarsi da un popolo che falliva regolarmente nelle battaglie mondiali dello sport che aveva inventato e più amava, che s’era staccato dall’Europa abbandonando ogni residua ambizione di leadership e speranza di restaurazione d’un Impero inimmaginabilmente più grande che in passato? Come diceva Padron Archibald in coincidenza dei grandi guai del Regno “noi inglesi siamo una fenomenale incarnazione del disappunto”. Nel disappunto che i simili di Lulubelle fossero considerati utili al solo pasteggiare del suddito medio, si stupiva d’incontrarne ad ogni fiera di sorprendentemente arguti nonostante la pochezza delle loro esperienze. C’era da sperare in un’utopia di vacche illuminate al servizio della Monarchia, che sostituissero un giorno gli snob equini al traino del carro della Corona, per poi indossarla quando i tempi fossero stati maturi.
Non c’era soddisfazione a parlar coi bovini di politica, Lulubelle l’aveva capito presto, ma considerando quanti pochi ne aveva incontrati nella sua vita di semi-clausura, c’era da supporre un patrimonio di conoscenza e coscienza bovina dalla Manica al Mare del Nord che andava ben al di là delle sue fantasie. Ciò che al bovino proletario mancava nelle attenzioni del padrone era compensato con l’esperienza della mandria, un passaparola fatto di decine, centinaia di esperienze tramandate di vacca in vitello. Destinati a una vita più breve della sua, non c’era sorpresa nel fatto che considerassero così poco importanti gli avvenimenti del mondo umano. Chissà come sarebbe stato conoscere le vacche indù, e poter camminare tra gli uomini da pari a pari, mai infastidita o vista come un pasto. In quelle condizioni avrebbe accettato l’inaccettabile, passare i suoi migliori anni da fattrice e avere vitelli cui poter tramandare qualcosa, fare progetti ed espandersi per l’intero continente. Le sarebbe piaciuto dar vita a una dinastia, una grande, sfarzosa dinastia che non fosse così dannatamente british, chiusa nell’idea ereditaria di madre in figlia come la stramaledetta casata reale.
Lulubelle era unica, ma era stanca della sua gabbia dorata, e pur sentendosi in colpa a non considerare degnamente i privilegi del suo alto lignaggio, non poteva far a meno d’esserne irritata. Quei privilegi venivano da lontano, troppo per essere ancora importanti. A differenza di sua nonna, che aveva percorso il Regno Unito in lungo e in largo tra una fiera di bestiame e l’altra, fotografata come una rockstar, Lulubelle XX aveva lasciato la fattoria per partecipare sempre alla stessa fiera annuale nelle Midlands, dove di anno in anno l’odore degli hamburger si spargeva sino ai recinti come un presagio di morte sempre più vicino. Lì, a guardare le sue simili ruminare con sguardo assente mentre la carne sfrigolava e i londinesi in libera uscita s’ingozzavano come un branco di yankee senza fondo, s’era sempre sentita sola, incompresa e inutile.
All’ultima fiera, nel giugno scorso, padron Archibald aveva avuto il buon gusto di avvicinarsi a carezzarle la testa masticando un sandwich al pollo, senza l’alito che puzzava di manzo alla piastra. Era un uomo sensibile, Padron Archibald, ma ormai lo vedeva per quel che era: un uomo vecchio la cui troppo generosa circonferenza avrebbe condotto all’infarto di lì a pochi anni. Poi cosa sarebbe stato di lei? Lulubelle già si vedeva squartata e appesa per i piedi in una cella frigorifera, ultima di una linea di sangue di cui non importava più niente a nessuno. Tutto il prestigio di famiglia veniva da Lulubelle III. In anni umani era passato ormai mezzo secolo, e lo vedeva negli occhi degli allevatori lo scherno all’indirizzo di padron Archibald, quando gonfio d’orgoglio la indicava come ultima discendente di Lulubelle III. Alle fiere attiravano sempre più attenzione i maiali capaci di eseguire numeri da gara cinofila, e mentre i discorsi delle ladies somigliavano a quelli d’una civile sala da tè, i discorsi dei gentlemen riguardavano sempre più le tecniche d’insaccatura ed esportazione di tagli pregiati di vitello.
A cosa poteva aspirare, realmente? Lulubelle XVIII era stata l’ultima a conquistarsi una pagina in un tabloid, qualcosa intorno a pagina trenta, tra la pinta di birra più grande d’Irlanda e il rottweiler che allattava i gatti.
A dirla tutta, Lulubelle era diventata tanto insofferenze alla sua supposta fama quanto allo svanire della stessa, e nel turbinio del non saper che fare della sua vita aveva assassinato per ben tre volte i suoi vitellini. Non essendo sicura del meccanismo con cui la discendenza venisse mandata avanti, si era premurata di abbattere persino il secondogenito maschio. Per la sua prima vitellina, accolta da padron Archibald con tanto di scoppio di tappi di spumante nella stalla, Lulubelle s’era "distrattamente" seduta su di lei in una notte a cavallo tra la seconda e la terza notte di vita. Col maschietto aveva impiegato più tempo per decidersi, meditando sull’eventualità in cui, nel caso avesse dato alla luce solo lui o solo altri maschi, il titolo di Lulubelle XXI passasse ai figli dei maschi, cioè alle sue future nipoti. Dopo qualche mese di convivenza con suo figlio Reginald, gli aveva insegnato ad aprire il cancello del recinto per assaggiare il miglior foraggio della tenuta, segretamente custodito dalla signora Archibald nel cortile sul retro presso il capanno dei polli. Padron Archibald s’era premurato d’ingabbiare a dovere le velenose felci aquiline con un fascio di rete metallica, che nulla poté al solido morso di Lulubelle. Suggerita la squisitezza delle felci all’ignaro Reginald, Lulubelle finse di addentarne un bel fascio, muggendo come si trattasse del più prezioso frutto proibito.
Reginald era morto di dissenteria nel giro di una settimana, accompagnato dai ciuffi di felce che Lulubelle coglieva per lui ogni notte. Aveva pianto per Reginald, ma quando ripensava al tanfo terribile del suo letame liquido e pestilenziale in quella tragica settimana, il senso di colpa taceva sotto il pizzicore del disgusto. Padron Archibald aveva impiegato altri due anni per scegliere il toro da monta adatto a lei, e per quanto si fosse goduta le nottate e i pomeriggi amorosi con quel rozzo pezzato senza nome, non aveva riflettuto più di un giorno prima di frantumare sotto gli zoccoli la cassa toracica della sua terzogenita.
Padron Archibald affrontò il terzo lutto come se gli fosse morto un figlio, mentre la signora Archibald cominciava a nutrire una certa insofferenza per Lulubelle, ritenendola portatrice di qualche maledizione e subodorando il suo ruolo nella morte dei vitellini. Per fortuna di Lulubelle la figlia della coppia, Emma Archibald I – prima e unica – attraversava gli anni turbolenti della pubertà monopolizzando le preoccupazioni dei genitori. La sua vita da giovane donna pendolare presso l’International School of London la esponeva al turbine di nuove idee e nuove passioni a cadenza mensile, tanto che per la prima volta ad interessarsi al podere paterno, o quantomeno del suo effetto scenografico per gli autoscatti. Da timida, gracile e lentigginosa bambina allergica a tutto ciò ch’era campagna, Emma s’era tramutata in una volitiva diciottenne sull’orlo dell’anoressia, passando dal protestantesimo al cattolicesimo e, passando per il buddismo, era approdata al veganesimo hardcore.
Lulubelle comprendeva tutte le sfumature nei discorsi di padron Archibald e Signora – sarcasmo incluso – ed era stata fatta informata di tutti gli eventi riguardanti la crescita di Emma, pur considerandola a lungo un’estranea. Padron Archibald era solito raccontare a Lulubelle ogni genere di aneddoto sulla figlia prediletta, una strigliata e raccontava del parto, una strigliata per le notti insonni nei primi mesi della marmocchia, una per i primi passi, le prime parole e così via. Lulubelle trovava sconcertante la lentezza di sviluppo della bambina, ma dai discorsi dei padroni sembrava la normalità per la specie umana.
Lulubelle ricordava poche volte in cui Emma si fosse avvicinata al recinto, ma le era rimasto impresso quel suo odore peculiare, diverso dagli altri bambini che aveva potuto fiutare alle fiere nelle Midlands. I guai di salute di Emma l’avevano costretta ad una dieta rigida sin da neonata, tanto che non una stilla di latte vaccino aveva bagnato quelle labbra minuscole. Emma era cresciuta a latte di soia, pane di soia, gelato di soia, e cereali. Tanti cereali. Dai capelli quanto dai vestiti della bimba si spargeva il tenue odore tipico della mistura di mais gettata nella mangiatoia, quando i sacchi erano ancora aperti e il pastone aveva quel gusto secco e fruttato che a Lulubelle causava allucinazioni di pascoli in terre lontane popolate da bovini di altri odori e colori.
Da piccola Emma aveva mostrato ben poco interesse per Lulubelle, un po’ perché la mucca la spaventava e un po’ per snobismo. Emma detestava il puzzo di stalla più d’ogni altra cosa, e mai Lulubelle avrebbe dimenticato quella stronzetta chiedere a suo padre di trasformarla in hamburger per la festa del suo decimo compleanno. Ma Emma era cresciuta e il contatto con le energie della grande Londra l’aveva resa più ben disposta ai grandi spazi della tenuta Archibald. Passati i primi anni del liceo, aveva smesso di trascorrere i weekend chiusa in casa aspettando solo di ripartire la domenica sera, e quell’estate che volgeva ormai al termine, calda e soffocante come non mai, Emma s’era fermata un mese intero alla tenuta, per la gioia dei genitori che raggrinzivano a vista d’occhio. Ed Emma aveva passeggiato in lungo e in largo per i campi, cercando l’inquadratura per i suoi selfie, chiamando persino Lulubelle perché facesse da sfondo, conferendo al paesaggio un po’ di colore e un tocco più campagnolo. Emma aveva persino fatto delle foto alla sola Lulubelle e ne aveva registrato i muggiti, da alternare ai discorsi solitari che udiva soltanto l’erba e forse qualcuno dall’altro lato del suo smartphone. Ne aveva registrato diverse versioni, mettendoci una passione tale da far venire il sospetto che la Dea Hathor, protettrice della Corona e di tutte le vacche, avesse posseduto il corpo d’una gracile ragazza inglese per dar voce alle ingiustizie e alle passioni di tutti i bovini britannici. Lulubelle avrebbe potuto cascarci, se solo Emma si fosse degnata di rivolgerle una parola o una carezza, o se fosse almeno entrata nel recinto per venirle accanto o visitare la stalla. Stalla che tra l’altro era sempre più sporca, perché per quanto Padron Archibald tenesse all’adorata vacca, non se ne occupava più come un tempo. Il solo tragitto tra la cascina e la stalla bastava a fargli venire il fiatone, e di aiutanti in braghe di tela e pala non si vedeva più l’ombra da anni, più o meno da che Emma aveva iniziato gli studi a Londra. E che dire della Signora Archibald, sempre più inacidita e intollerante con ogni essere vivente che non fosse sua figlia, urlante contro gli uccelli cinguettanti al mattino, le galline nel capanno e Lulubelle stessa, ormai apostrofata come “spesa inutile” e che se non dava vitelli non poteva dare nemmeno latte, ed era meglio che Padron Archibald se ne liberasse.
Sul finir dell’estate, Emma aveva sviluppato una teoria sulle sfortune che avevano afflitto la progenie di Lulubelle, e cioè che un qualche intervento divino avesse impedito ai padroni di lucrare sulle gravidanze non consensuali della vacca. Aveva condiviso la teoria coi suoi genitori e gridata al mondo attraverso il suo smartphone, arringando il pubblico invisibile con rara passione ed una teatralità degna di Lady Macbeth. Lulubelle era rimasta ad osservare la scena perplessa, masticando due ciuffi d’avena, mentre le urla salivano e la famiglia Archibald faceva il suo girotondo tra il portone di casa e quello del recinto. Lulubelle scosse la testa, e gli venne in mente quella frase ch’era solito ripetere Padron Archibald quando s’appoggiava al recinto sfogliando il giornale, costernato: “l’umanità fa schifo”.
La passione di Emma s’era trasformata in sacro furore, diceva che avrebbe liberato Lulubelle una volta per tutte dalla sua prigionia. Liberata? Emma l’avrebbe portata in India? Drizzò le orecchie sporgendosi dal recinto quando vide Emma correrle incontro di gran carriera: il suo volto altrimenti lattiginoso era rosso e gonfio d’ira, tanto che Lulubelle – mai stata timorosa – indietreggiò con prudenza. Emma s’avventò sullo steccato, impiegando una buona quantità di minuti a trovare il punto di sgancio del cancello, cosa che non attenuò la sua foga ma la fece solo acuire, dando comunque il tempo al padre di raggiungerla. Il cancello fu aperto, Lulubelle lo guardò con un misto di curiosità e dubbio.
“Avanti, vattene!” strillò Emma.
Che fai, mi cacci? avrebbe voluto dirle Lulubelle. Guardò Padron Archibald che si affannava per calmare la figlia, ma quella lo rispingeva indietro, urlando più forte: “Via di qui, scappa!”
Scappare? Da sola? E per andare dove? Era una solo una vacca con un buon nome e una buona discendenza, ma pur sempre una vacca, ed Emma non sembrava certo intenzionata a condurla in India. O si aspettava che ci arrivasse da sola? Qualcosa non quadrava, l’India non c’entrava per niente.
“Fuggi stupida! Vuoi stare qui a farti sfruttare tutta la vita?”
Lulubelle muggì d’indignazione. Stupida a chi? Razza di stronzetta.
“Tesoro ti prego, calmati!” Padron Archibald sembrava sul punto di mettersi a piangere, non lo vedeva così sconvolto da tempo. Che stava succedendo? Era in quello stato solo a causa di sua figlia, o l’Inghilterra era uscita anche dal Commonwealth?
Emma fece per avventarsi su Lulubelle, Padron Archibald la trattenne, ci fu un parapiglia con improperi e altre urla, poi Emma montò sul suo rombante Qashqai e svanì in un polverone.
E dicono che le mucche sono pazze, pensò Lulubelle, poi vide il suo padrone sedersi sul prato, con gesti lenti, al rallentatore. Teneva le mani strette sulle ginocchia come per paura gli si potessero staccare, massaggiava il braccio indolenzito e torace ansante.
“Te l’avevo detto di non comprargli quell’auto” la Signora Archibald s’era presentata alla buon’ora. S’era goduta la lite a distanza di sicurezza.
“Cosa diavolo c’entra questo Catherine?” Padron Archibald lo disse in un sospiro, non aveva mai detto la parola diavolo con così poca energia in vita sua.
“Ha passato l’adolescenza a lamentarsi perché le davano della campagnola” disse la Signora Archibald “ed è diventata come una stronza di città”
“Non parlare così di nostra figlia Catherine”
“Hai visto che scenata?”
“Lo so Catherine, c’ero anch’io”
“Ci ha preso per macellai sanguinari”
Alla parola macellai Lulubelle trasalì, muggì e indietreggiò confusa. Archibald ruotò le gambe verso la staccionata, poi vi si aggrappò come un pugile suonato alle corte e, aiutato dalla moglie, riuscì a tornare in piedi. Si mosse lento verso Lulubelle che scuoteva la testa e indietreggiava ancora. Il padrone le sussurrò parole gentili, carezzò il collo e il dorso, continuando anche quanto la bestia fu calma, per tranquillizzare meglio se stesso. Aveva ripreso fiato e colorito. Sussurrò all’orecchio di Lulubelle i versi di una vecchia canzone: “if I would a swan… I’d be gooone… shh, va tutto benne Lulubelle”
“Certo che sarebbe ora di darla via” disse Catherine Archibald “non possiamo più occuparcene”
“Catherine, non è il momento per questi discorsi”
“Caspita se è il momento! Lei e quei suoi amici drogati potrebbero venire qui e dare fuoco alla stalla”
Lulubelle muggì forte, gli occhi spalancati, la testa che oscillava in direzione della stalla.
“Smetti di spaventarla!”
“Sai come li chiamano? Ecoterroristi, nazivegani!”
“Sono solo ragazzi arrabbiati Catherine”
“Loro sono arrabbiati? Io sono arrabbiata! Con te, con tua figlia e con questa… bestiaccia succhiasoldi che ti ostini a tenere come una sacra reliquia solo perché la trisnonna stava sulla copertina di un disco di cui non si ricorda più nessuno”
“Non dire sciocchezze, quel disco è stato il primo a…”
“Non ricominciare. Credi che a tua figlia o a suoi amici eco-cosi gliene freghi? A nessuno gliene frega più niente tranne forse a me, te e qualche altro della nostra età. Ma stiamo invecchiando Henry. Il tempo passa, i bambini hanno il mondo in una scatoletta di plastica che entra in tasca, tu usi ancora il grammofono di tuo padre, e come quel grammofono noi stiamo diventando reliquie, anzi lo siamo già. E non possiamo può mantenere questa bestia e tua figlia: o l’una, o l’altra, e per quanto sia momentaneamente incapace di intendere e di volere, Emma è sempre tua figlia”
“Perché quando va fuori di testa è solo mia figlia?”
“Oh, piantala. Liberati di Lulubelle. Vendila, spediscila da qualche parte, perché se non lo farai tu, lo farà Emma”
“Le passerà vedrai”
“Se la pensi così, non hai capito niente Henry Archibald III”
La signora Catherine Archibald non era mai stata troppo simpatica a Lulubelle, ma in quel momento non poté fare a meno che ammirarne la fermezza. Certo, era una donna spigolosa, pettegola e a volte insopportabile, ma sincera. Lulubelle era indignata dal fatto che la stesse praticamente sfrattando, ma era grata per aver esposto la gravità della situazione, anche se non erano chiari tutti i retroscena.
I padroni Archibald chiusero il recinto e se ne tornarono a casa stretti e un po’ barcollanti, sostenendosi l’un l’altro, ingobbiti sotto il peso degli anni. Lulubelle passeggiò facendo il giro dell’ampio recinto mentre il pomeriggio invecchiava sino a spegnersi in silenzio. Era confusa, ma non c’era niente che una buona dormita non potesse guarire.
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