Stai leggendo: "Un pasto di nome Ernesto" di Quinto Moro
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Ernesto era un bravo ragazzo. O meglio, un brav’uomo. Scoprì la malattia a quarantun anni. Non quella per cui continuasse a considerarsi ragazzo piuttosto che uomo, da quella non avrebbe fatto in tempo a guarire. Ce n’era un’altra. Una malattia di cui soffriva già tempo ma per un motivo o per l’altro non aveva mai approfondito troppo. Per mia fortuna.
Il suo medico di fiducia era andato in pensione senza nemmeno avvisare i pazienti, che s’erano ritrovati di colpo in braghe di tela. Al paese c’erano stati dei buoni medici, per qualche decennio. In barba alla riservatezza medico-paziente, le diagnosi azzeccate e più clamorose – ah, potevo morire! – finivano sulla bocca di tutti, pubblicizzate dai dagli stessi pazienti vogliosi di mettersi in mostra, come fieri miracolati per grazia divina. La fama dei buoni dottori si spargeva per il paese e nessuno mancava di far mancar loro più cortesie e favori di quanti non fossero necessari. Ma quel tempo era finito, e non solo per la carenza di nuove generazioni e la geriatria galoppante di chi esalta sempre e solo i bei tempi andati, e com’era bravi i dottori ai miei tempi. C’era stata davvero un’epidemia, una moria di dottori. Quelli bravi erano andati in pensione, quelli nuovi erano tutti stranieri, venuti da paeselli vicini o addirittura dalle regioni confinanti, e non ce n’era uno in grazia di Dio. Erano sciatti, svogliati, e non perché fossero giovani, come i più avvizziti avrebbero potuto lamentare. I nuovi medici non erano giovani. Non erano simpatici. Molti erano già prossimi alla pensione, ed erano per lo più stronzi. Il paese scontava di colpo la buona fortuna passata. Non si riusciva a prenotare una visita, avere una ricetta. Ci si doveva arrangiare coi dottori di amici e parenti giù in città, o in qualche paese vicino. Sempre per mia fortuna.
Quando il medico di fiducia del caro Ernesto andò in pensione, lui ci mise un anno a sceglierne un altro. Scelta obbligata, ne era rimasto uno solo disponibile ad accaparrarsi tanti pazienti: il Dottor Laconico, di nome e di fatto, spigoloso nell’aspetto e nei modi, tanto irritante quanto irritabile. Le voci sul suo conto si moltiplicavano pure alle orecchie di un Ernesto poco attento alle voci di paese. Si diceva che maltrattasse i pazienti, che i pazienti lo mandassero spesso a quel paese e lui, non avendo alcuna voglia di traslocare, s’incattiviva sempre più.
Ernesto era un uomo sano. Non fumava, l’odore di sigaretta gli dava la nausea e non s’era mai fatto nemmeno un tiro, cosa di cui gli sono sempre stato grato. Beveva un po’ la sera, e anche se nei periodi tristi ci andava giù pesante, non era quell’alcolizzato che s’era convinto d’essere. Io ne avevo conosciuti, di alcolizzati veri. Al nostro caro Ernesto una bionda faceva girare subito la testa, e al secondo bicchiere era già bello cotto. Si parla di birra, ma il discorso varrebbe pure per le donne. Un romanticone, il buon Erné, e m’è dispiaciuto per la sua morte, specialmente perché non c’era nessuna, delle sue cosiddette amiche, a tenergli la mano mentre esalava l’ultimo respiro. Per mia sfortuna.
Non ebbe mai fortuna con le donne, ma neanche loro con lui. Ernesto dava troppo peso al suo aspetto fisico, alla pancetta di cui non era mai riuscito a liberarsi, incapace di reggere una dieta e di fare esercizio regolare. Lo diceva a voce alta quel “chissenefrega” quando ipnotizzato dal freddo chiarore del frigorifero ci affondava le braccia per cacciar fuori spuntini di mezzanotte, spremute di salse ipercaloriche su pagnotte scaldate in padella a custodire cuori grondanti sangue amburghese. Certo, io non gli avrei mai permesso di diventare obeso, ma non potevo né volevo restituirgli la magrezza di quand’era bambino. Capitava che Erneso si facesse lunghe chiacchierate allo specchio, ragionando disgustato sulle differenze tra ciò che sperava di vedere e ciò che lo specchio gli restituiva. Eppure gli mancava la volontà di rinunciare alle straordinarie dosi di zucchero giornaliere. Non beveva acqua liscia e trasparente, pretendeva sempre un qualche gusto fruttato, le bollicine, il colorante, lo zucchero, l’alcol. Quante volte l’ho sentito scherzare sul fatto che sarebbe morto d’infarto o di diabete, col finto fatalismo dell’ipocondriaco non dichiarato, che sotto sotto pensa ad ogni boccone di troppo e ogni sbronza come un chiodo sulla bara.
La fine di Ernesto cominciò con un mal di gola, come sempre in questi casi. La gola divenne ipersensibile alle infiammazioni, una sola coppa di gelato gli dava il tormento per giorni. Ma Ernesto non si sarebbe privato di niente, se non dell’alcol cui dava sempre la colpa di tutto, ai periodi bui dei passati eccessi, a quando il vizio diventava cronico e la prospettiva di passare una serata sobria lo spaventava più d’ogni altra cosa. Allora ogni dolore addominale, ogni sudore freddo, ogni fitta al cranio gli metteva addosso la paura di un tumore, un infarto, un ictus. Anno dopo anno, dolorino dopo dolorino, l’abitudine aveva fatto il suo corso. Era diventato sempre meno incline a tastarsi la gola e l’addome, ad aprire la bocca per scorgere le scie rosse di un’infiammazione. E per fortuna. Nei giorni peggiori, verso la fine, armato della fedele mini torcia montata sulla penna a scatto, scrutava fra le tonsille e l’ugola le tracce del malanno, poi spruzzava l’antinfiammatorio e si tranquillizzava per qualche giorno. Quando però scorgeva le petecchie all’interno delle guance e del palato, le rigature nere dietro l’ugola scambiate per capillari rotti e incancreniti, Ernesto andava in paranoia ed era una tortura: torcia in gola mattina giorno e sera, tra una telefonata e l’altra per fissare controlli medici a cui non sarebbe mai andato. Non c’era mai posto. Le infinite code della sacrosanta sanità pubblica lo deprimevano, ma si faceva bastare il temporaneo sollievo per un appuntamento preso, per poi fingere di dimenticarsene o trovare qualcosa di più importante da fare. Quando poi se ne pentiva, un’alzata di gomito in più faceva il resto. Digiunava. Beveva. Poi riprendeva qualche chilo. Faceva l’astemio, il salutista, eliminando salumi e carni rosse dalla dieta una o due settimane. Fino alla comparsa di qualche nuovo sintomo. Una fitta alla pianta del piede, un sintomo di cattiva circolazione, di diabete, di trombosi. Fantasie su amputazioni d’arti. Sudori freddi notturni e ansie per un infarto che non veniva mai. E il respiro affannoso, l’iperventilazione, il mal di gola, e di nuovo le stramaledette esplorazioni esofagee con la stramaledetta mini torcia.
La mini torcia da taschino gliel’aveva regalata un politico. Un perfetto stereotipo del politico grasso. Al confronto, Ernesto era un figurino, un maratoneta, un adone. Ad ogni giro di elezioni questo tizio si ricandidava per qualcosa, per il comune, per la provincia, per la regione, il parlamento. Stava sempre in campagna elettorale. Ogni volta se ne inventava una. Faceva riempire la tangenziale di bandierine del partito, comizi estemporanei per strada e in pizzeria. Fermava la gente per strada, a piedi o in macchina. Una zecca di centoquaranta chili. Il tizio spendeva una fortuna in ogni genere di gadget: portachiavi, bustine di zucchero, sottobicchieri, e penne, tante penne. Penne col suo nome serigrafato. Penne stilografiche in astuccio con lo stemma del partito. Penne a scatto. Penne col disegno di donnine che diventano nude se capovolte. Penne con la mini torcia per cercare voti nella lunga notte tra un’elezione e l’altra. Ernesto ne aveva un cassetto pieno. Teneva le penne con la mini torcia nell’armadietto del bagno, insieme a collutorio e spray per la gola, e ogni tanto sbirciava, accidenti a lui.
La primavera del suo quarantesimo compleanno Ernesto cominciò a dimagrire. Il peso aveva cominciato ad oscillare e tutto contento alternava lunghe camminate a pasti abbondanti. Con l’avanzare dell’estate, felice di sfoggiare la nuova silhouette, riprese ad andare in spiaggia, facendo gli occhi dolci a qualsiasi cosa indossasse un bikini. Avrebbe ricominciato a nuotare, se le forze non gli fossero mancate tanto velocemente. Un pomeriggio di metà luglio quasi annegò, esausto dopo poche bracciate. Trascinatosi a riva impiegò una buona mezzora per coprire il chilometro di strada che lo separava dall’auto, poi rimase lì, abbracciato al volante, affannando fino ad addormentarsi. Si svegliò a notte fonda, con lo stomaco a brontolare indispettito, elemosinò un pasto dall’ultimo food truck rimasto sul lungomare che chiudeva bottega. Gli rifilarono un panino vecchio di chissà quanti giorni, di quelli messi in vetrina solo per far da cuscinetto ai cartellini con prezzi e ingredienti. Non aveva nessun sapore e non riuscì a saziarlo. Rientrato a casa, rimase a letto sino alle due del pomeriggio successivo, sordo allo squillare del telefono. Era l’inizio. Gli sarebbe accaduto sempre più spesso.
Solo quando i pantaloni cominciarono a cascargli Ernesto prese la faccenda seriamente. Il karma lo punì per tutti gli appuntamenti presi e disertati rendendogli impossibile farne di nuovi. Ci volevano due mesi per un’ecografia. Quattro per una radiografia. Otto per una risonanza. Fece le analisi del sangue a pagamento. Tre volte. Il medico etichettò il tutto come spossatezza stagionale la prima, disse “un po’ di anemia” la seconda, e la terza gli diede il numero di un dietologo e di uno psichiatra.
Nudo davanti allo specchio si vedeva magro come aveva sempre desiderato. Più di quanto avesse desiderato. Una magrezza triste, malsana, che pure non aveva appiattito del tutto quell’odiosa pancetta. Le braccia, mai robuste, non erano mai state tanto esili. Erano dimagrite le gambe, che aveva sempre avuto robuste, da calciatore, anche se ad eccezione dei pomeriggi adolescenziali nei campetti in tappeto di cemento e schegge di vetro e ghiaia, non aveva mai giocato allo sport nazionale. Non seriamente, come tutti i suoi ex compagni di scuola e rari amici.
Col volto smagrito e la pelle stirata su zigomi e mascella, Ernesto cominciava a somigliare al vecchio zio. Quello pazzo. Quello ch’era morto scheletrico, consumato da tutto ciò che poteva consumare un uomo: le sigarette, i debiti, il whisky, la galera, il rimorso, il caffè, l’ex moglie. Eppure nessuno l’aveva mai sentito lamentarsi di nulla, tranne che degli insetti. Dava le colpe d’ogni sventura agli insetti, perciò lo chiamavano pazzo. Ernesto ne aveva un ricordo preciso. Al ricevimento della Prima Comunione, lo zio sprofondava nella poltrona troppo morbida per quel corpo così gracile. Stava rannicchiato con le gambe accavallate, le spalle strette e la testa in avanti, protesa verso la sigaretta stretta tra le dita ossute. Sembrava che non potesse avvicinare la sigaretta alla bocca, che gli arti fossero rigidi e dovesse chinarsi con tutta la schiena e il collo, come un animale che si abbevera alla fonte. Lo zio aveva labbra rientrate, occhi scavati. La testa una palla da biliardo opaca e punteggiata di lentiggini. E aveva tanti soprannomi, ciascuno affibbiatogli a puntellare un aspetto e un periodo diverso della sua vita. Ernesto aveva sentito spesso i parenti sparlare di lui, chiamarlo Paperoga, Kriminal, Marlboro Man, Teschio. Ed era così che un giovane Ernesto lo disegnava nei ritratti di famiglia: un calavera avvolto in abiti eleganti e per volto un teschio grigio con la sigaretta tra i denti.
Benché fosse stato solo una comparsa nel film d’infanzia di Ernesto, lo zio Teschio s’era guadagnato il ricordo nel primo piano di quel volto consumato, avvolto nel fumo di sigaretta e baciato da una mosca sullo zigomo al ricevimento della Comunione.
“Zio, hai una mosca sulla guancia” fece notare il giovane Ernesto. Non l’avrebbe notato nessun altro. Il resto della parentalla aggrediva vorace il secondo vassoio di tiramisù, sgranocchiava confetti, amaretti, gianduiotti e addentava tappi di bitter e stuzzicadenti con le olive per poi suggere il divin Martini. A Ernesto, quell’omino secco e in disparte faceva strano, anche perché avrebbe dovuto trovarsi al ricevimento della Comunione del figlio nonché cugino di Ernesto, a cui forse non era stato invitato.
Rapito dalla sigaretta, e dal caos che oltre di essa si muoveva nel chiasso dei parenti come uno spettacolo di cabaret, lo zio non s’accorse di lui.
“Hai una mosca sulla guancia!” arrivò a strillargli il nuovo discepolo dell’eucaristia.
“Lasciala stare” disse Teschio, con un sorriso serafico che tese gli zigomi ma non disturbò l’insetto “mi sta mangiando”
Ernesto gli agitò la mano vicino alla guancia, facendo turbinare il fumo e scacciando l’insetto. Il corpo dello zio si scosse in un abbraccio spontaneo che fu per Ernesto come l’ingresso in una ciminiera. L’inedito gesto d’affetto, reso sgradevole dalla zaffata di fuliggine e tabacco, lasciò Ernesto stranito, con l’impulso di fuggire. Durò un istante, e quando Ernesto guardò di nuovo in quel teschio ci trovò occhi commossi e umidi, come se scacciare la mosca fosse stata chissà quale cortesia.
Dopo quell’episodio, Ernesto non avrebbe rivisto lo zio per vent’anni, sino alla di lui veglia funebre. Ora che il suo corpo si consumava, Ernesto si chiese se le mosche non cominciassero a svolazzare affamate anche intorno al suo teschio, che ormai vedeva disegnato sotto la pelle nelle sempre più frequenti sessioni allo specchio. Avrei voluto tranquillizzarlo, ma sarei stato ipocrita.
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>>> continua >>>
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