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Stai leggendo: "Un pasto di nome Ernesto" di Quinto Moro

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Parte 2 - Epilogo

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Allo specchio, Ernesto si ripeteva la massima tanto cara al suo capo: è quando dimagrisci senza un vero motivo che devi iniziare a preoccuparti. Il vecchio capo di Ernesto, ipocondriaco e fumatore incallito con la fobia dei tumori, cianciava di malattie in continuazione, con tutti i clienti e dipendenti, e aveva tutto un campionario di perle di saggezza da dottore. A furia di invocarlo, il cancro gli era venuto davvero, e il buon Ernesto, smagrito ed emaciato, s’era infine convinto d’averlo pure lui. Quando finalmente riuscì a prenotare una risonanza, dubitò che ci fosse un cancro abbastanza paziente da aspettare tanto a lungo.

Provai affetto per lui, mentre lo sentivo singhiozzare davanti allo specchio dopo l’ennesima e più spaventosa esplorazione della cavità orale, con la comparsa dei filamenti neri che dall’esofago risalivano fino ai lati delle guance come crepe su una parete. Le tonsille palatine erano scure come prugne, rinsecchite, strizzate. I follicoli linguali somigliavano al lastricato del centro storico, sampietrini rosa e violacei affocati nel catrame.

Una settimana prima di morire, in preda all’angoscia, scoppiò a ridere. Gli era tornato in mente il jingle d’una vecchia pubblicità, e se lo canticchiò tra un singhiozzo e una risata.

“Attenti a quella bocca, che puzza di carogna. È arrivato zio Ernesto, con l’alito di fogna.”

 

Ernesto passò la sua ultima settimana di vita a scrivere lettere d’amore alle ragazze che aveva amato – e pure a quelle di cui gli era fregato poco, nel dubbio servisse a farsi rimpiangere pure da loro – salvo poi cancellarle tutte per sbaglio, facendo pulizia tra le collezioni di porno archiviate nei meandri del computer.

Inflazionato di gelato e alcolici, si agitava con le residue forze presso lo stereo a tutto volume, ballando disarticolato, cantando a squarciagola come potesse cavar fuori il dolore e la malattia strillando a quel modo.

Le nere striature arrampicate fuori dall’esofago, ormai sul palato, rendevano ogni suono un gracchiare inframezzato da sibili e fiato spento, con esalazioni pestilenziali di carne marcia e morente. Nuotò steso sul pavimento della sua stanza, tra onde di dischi, libri e fumetti, foto d’infanzia, le magliette che gli aveva regalato una vecchia fiamma e i calzini in lana cuciti a maglia dalla nonna. Si arrampicò infine sul letto, tra i fumi dell’alcol e l’odore di bruciato della cena ancora in forno che aveva dimenticato di mangiare. Tanto non ci sarebbe riuscito. Non poteva più deglutire.

Alle prime luci dell’alba, quando il chiarore entrava tra le fessure delle persiane, Ernesto spirò. Lo stereo ripeteva per la quindicesima volta “Karma police” dei Radiohead. “Exit music for a film” sarebbe stata più appropriata, ma non aveva più forze e le dita ancora mobili non raggiunsero mai il telecomando dello stereo per interrompere il loop.

Mentre il suo corpo diventava freddo cominciavo a chiedermi quando qualcuno si sarebbe accorto della dipartita. Sentii il telefono squillare quand’era già passato un giorno. Le finestre erano chiuse e ben presto la puzza sarebbe diventata insopportabile. I vicini non se ne sarebbero accorti. Il portone blindato era chiuso dall’interno, con la chiave nella toppa. Non sarei morto di fame, non era così magro da gettarmi nella disperazione, ma per quanto fossi affezionato ad Ernesto non intendevo fargli compagnia sino al completo disfacimento del corpo. Ben presto i suoi tessuti molli avrebbero iniziato a collassare, avevano già perso di sapore.

Il sangue coagulato sapeva di minestra fredda e stantia. Decisi dunque di uscire, e benché mi fossi ampiamente preparato negli ultimi giorni, allungando le zampe sul palato e alla base della lingua, strisciar fuori fu più difficile del previsto. Me ne stavo lì da anni, annidato tra la giunta del piloro e l’esofago. Dopo anni d’inattività motoria in cui non avevo fatto altro che mangiare, ero disabituato a muovermi. Riprendere pieno possesso del mio corpo non fu uno scherzo. Allungare le propaggini in vista dell’uscita aveva consumato molte delle mie riserve. Le giornate trascorse con le zampe distese lungo l’esofago avevano però contribuito a rafforzarle, aumentando l’aderenza con le sfuggenti mucose. Al momento di tirare, lo sforzo fu logorante ma meno traumatico del previsto. Speravo che qualcuno non buttasse giù la porta proprio in quel momento, ero vulnerabile, e sarebbe stato imbarazzante.

Non riuscivo a ricordare se Ernesto avesse lasciato le chiavi a qualche parente. Di certo non aveva parlato a nessuno della malattia. Chissà che colpo per la povera mamma, avrebbe dovuto almeno condividere con lei i sospetti su ciò che lo stava consumando, sulla fine imminente, così da renderle meno traumatica la notizia della morte. Ernesto non disse niente per non farla preoccupare. Era un ragazzo tanto dolce, anche se nessuno sapeva esattamente quanto. Io sì. Io l’avevo assaggiato. Avevo mangiato con lui, dentro di lui, e parti di lui, lentamente, per anni. Avevamo quasi gli stessi gusti, ma non poteva durare. Se avessi aspettato ancora un po’, la simbiosi mi avrebbe reso troppo difficile se non impossibile trovare un nuovo ospite. Per non parlare degli esami medici, sempre più difficile da evitare. Sulle ecografie potevo cavarmela, ma una risonanza sarebbe stata fatale. Meglio affondare il colpo, assorbire il meglio fintanto che il fisico era ancora sano. Le speranze d’una vita migliore l’avevano abbandonato presto, l’attendevano anni da cinquantenne frustrato e inviperito col mondo. L’avvelenamento dello spirito avrebbe intaccato le carni, il sapore del sangue, il funzionamento delle sinapsi e dello stomaco. Il fiele distillato dalle miserie della sua esistenza avrebbe avvelenato anche me, rendendomi pigro, sciatto, arrivato. Era il momento di cambiare vita, uscire da questo guscio alla ricerca di uno nuovo, più giovane, più saporito e vivo, prima di avvizzire nelle motivazioni e nel cuore. Prima di rinsecchirmi come l’ugola di Ernesto, ormai ridotta a un peduncolo a malapena in grado fornire l’appiglio buono per l’ultimo sforzo d’uscita. Aprirgli la bocca è stata dura. È sempre il momento peggiore, quello in cui speri nessuno entri nella stanza. Non dev’essere un bello spettacolo da fuori, ma pure da qui non è una festa.

Ernesto aveva denti sani e forti, ma pure scomodi perché le gengive non erano ritratte abbastanza da lasciarmi sfruttare gli interstizi alla base. Le zampe hanno retto alla tensione, ben salde sui denti. I gas già accumulati nelle viscere mi hanno dato l’ultima spinta, una zaffata pestilenziale attenuata dal sollievo. Una volta fuori ci si sente nudi, e fa un freddo cane. Vederlo dall’esterno è tutt’altra cosa. Me lo ricordavo più grosso. Certo ho avuto la mia parte nel dimagrimento. Ora ha la linea che desiderava, peccato non possa godersela.

Sul lungo periodo, Ernesto non è stata una buona scelta. Un uomo in salute, con una casa e un lavoro, contavo che a quest’ora avesse una compagna, qualche figlio, qualcuno con cui accasarmi dopo aver finito con lui.

Il telefono squilla di nuovo. E’ un buon segno. Forse dovrei arrampicarsi sul portone e sfilare la chiave dalla toppa. Rischio di sbavare tutto e lasciare tracce. Meglio accoccolarsi in un angolino e attendere. Spero di non dover aspettare troppo per un nuovo ospite. Eviterei volentieri l’orrido spettacolo della decomposizione, e sarebbe indecoroso vederlo marcire così, dimenticato da tutti. Un ragazzo tanto dolce, il buon Ernesto. Ricorderò il suo sapore con affetto.

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Fine.

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